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L' Amaseno
Un'altra volta, scendendo da Velletri, in una profonda notte d'Estate, avevo sostato a Cisterna. Allora la dritta via che mena a Terraccina era cupa sotto l'ombra dei grandi alberi stillanti, invasa dai vapori, col canto lugubre dell'assiolo e col pensiero delle bufale atroci, invisibili e pur presenti che sí udivano i tonfi nel canale putre, con l'orrore che una mandria dalle teste alte soffianti dovesse uscir dall'ombra e chiudere il cammino. Ma come si schiarò la via alla prima luce del mattino apparvero vicini gli Ausoni con le rocce di Trachinie, e dal mar di vapori, il Circeo come rosea isola emersa dalla palude mortifera.
Ben altra era la visione in quel giorno della primavera morente, la gioia regnava in quel luogo terribile e bellissimo; il gioco delle luci creava sui Volsci vicini e sugli Ausoni di viola e sull'arco Circeo, sacro al sole alla palma e all'acanto, e sulle rovine e su tutta la libera vegetazione un incanto indicibile. Era una festa di colori, di effluvii e di canti aerei. Emerse da quel palpito e da quel ritmo sembravano le divine immagini antiche ancor sovrane e invitte sulla terra sacra, ancor Venere Citerea menava i cori e le belle Grazie e le Ninfe battevano con piede alterno la terra.
Passavano dinanzi le città antichissime dei Volsci. Ecco Cora dardanea e Norba latina e la rupe sotto cui giace Ninfa fiorita tra le acque del Ninfeo specchio perenne, ecco Sermoneta dove sorgea la volsca Sulmo, e nella valle Corella, nascosto tra i monti, Bassiano di Aldo Manuzio, ecco l'ardua Sezze costrutta da Ercole che prese nome dal suo bianco leone, ecco il foro Appio e la via dove dormono le fondamenta del tempio sacro al profugo Saturno innalzato in ricordo del latibulo, luogo glorioso che diede nome al Lazio; e sorpassato l'antico Priverno ecco la Valle dell'Amaseno profonda, cinta dai monti Volsci e Ausoni, ecco il bel fiume gonfio che Virgilio sacrò a Camilla la bellissima Vergine qui data a Diana, quando legata allo strale volò sul fiume e la dea raccolse nel cespuglio, che qui visse la dura vita e qui s'addestrò per la guerra crudele contro gli eroi omerici.
Infiniti ricordi sorgevano in quella terra pregna di sangue eroico mentre risalivo verso le sorgenti del fiume e il cielo oscuravasi e la tempesta si avanzava da monte Cacume e le nubi piombavano sopra i boschi immoti. «Sul tuono e su tali alati corsieri un tempo dovevano scendere dal cielo irati i numi,» io pensavo, sentendo giungere suono di campane, in vicinanza di quel paese Amaseno che la voce dei dintorni chiama incestuoso. Perplesso io ero entrando in quel paese, meta del lungo viaggio, in quell'ora nera.
In qual mistero profondo si avvolgeva l'origine di quella gente che ancora conservava terribili riti nascosti e quale Iddio reggeva quegli amori che oggi gli uomini chiamano peccaminosi? Varcando la porta, presso la chiesa ogivale, pensai io fossi per entrare in un tempio dove sì officiava un culto sconosciuto. Vidi le donne dalle belle vesti antiche stanche nelle movenze, piene di un abbandono e d'un languore orientali; bellissime le vidi al mattino sotto il sole ad una ricca sorgente mentre affondavano la conca polita nelle scaturigini luminose del fiume.
Ero nel vicino castello di Prossedi quando cadeva il giorno, assorto sedevo sul balcone preso dall'incanto e dall'infinita pace della sera. Vedevo una vacca scendere lenta, una donna venire con la conca lucente dalla fontana, una casetta bianca addossata al monte fumigare. Mi riapparivano le case nere del paesello, una cuna di vimini con un bambino, una giovane dalla pura testa bionda ornata di tante piccole trecce; sembrava che queste cose umili e familiari mi prendessero l'anima e mi apparissero di una dolcezza nova dove io avrei dovuto cullarmi per sempre, o come un bene che io avessi perduto per sempre. Scesi con l'ospite; nel cielo vesperale vagavano vapori che di continuo salivano da un monte, una gola aveva un bel verde dorato che si perdeva nell'ombra della valle. Udimmo suoni dì acque e ci apparve una bella fontana marmorea ricca di armonie e dì getti. Alcune donne, cariche la testa di due conche bronzee, suscitavano l'immagine di quelle cariatidi che reggevano i templi nell'antico oriente. Nella grande targa sormontata da due stemmi lessi: - LIVIVS DL CAROLIS MARCHIO SVA SOLERTIA ET IMPENDIO...
«Vedete?» Io dissi senza essere sorpreso. «Un mio antenato; la mia vita nomade ha qui trovato il fine di suo vagare». Seppi anche che il castello che mi ospitava era stato di quel marchese Livio che aveva donato la bella fontana. E nella notte sognai mille sogni felici; mi pareva d'essere re nella mia reggia e udivo suoni squilli e canti dolcissimi. Mi svegliai quando il cielo imbiancava e le campane vicine squillavano e il canto nella chiesa era tenue come un ronzio d'api. Scendendo per l'ampia scala mi ritrovai nel cortile pieno dei voli e dei canti delle rondini così dolci che ne fui beato. La valle era nell'ombra, bella e ricca, solcata dal fiume, la chiostra delle montagne intorno l'illuminava; dinanzi a me in una grande acacia bianca e dolce per la fioritura ronzava tutto un alveare. Queste pure cose mi presero l'anima totalmente; si ruppe l'incanto quando il sole toccando l'acacia sonora mi sfioro la fronte. Qualche parte di
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quella infinita gioia mi addolcì l'anima soavemente; quella mi ricondusse a un mattino lontanissimo dell'infanzia. «È un risveglio? » Pensai avendo l'illusione che un velo sì sollevasse. Allora in un sogno ancor più bello dì quello regale io vidi un regno più vasto del mondo intero dinanzi per il mio cammino di conquista, dove la vita vi sarebbe arricchita di giorni gioiosi; una vita come un mare senza fine, meraviglioso e mutevole, pieno di luci e di sonorità vibrante ai dolci soffi e alla tempesta, una vita senza sicura meta, senza un destino invincibile, dove il bene e il male, le più umili e le più tristi cose fossero accette come un dono che creasse una gioia per sempre.
— Roma, MCM —
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